Sarà banale, ma Lecce–Napoli racchiude un mucchio di cose che rendono speciale una partita difficile da dimenticare, manco avesse veicolato al campionato una verità profonda. Di certo, all’ombra del Vesuvio se la ricorderanno a lungo. Per il risultato finale. Oltre che per le giocate determinanti, e l’impatto (non solo) emotivo sulla classifica. Al “Via del Mare” abbiamo visto tutto questo.
Il contesto tattico probabilmente ha fatto la differenza. Per Conte, l’undici titolare era quasi obbligato, con Buongiorno e Juan Jesus che hanno concluso in anticipo la stagione, bisognava risolvere il dubbio circa il centrale. La scelta di Olivera al fianco di Rrahmani relega in panchina Rafa Marín. Soprattutto, suggerisce al “mister” di cambiare sistema, tornando alle due punte, e chiedendo a McTominay di allargarsi all’occorrenza, scalando in fascia. Insomma, un 4-4-2 decisamente fluido. In una versione di squadra comunque impostata, per principio, a curare in maniera quasi maniacale la risalita dal basso, affidandosi a giocate codificate e interscambi per mangiare metri agli avversari. Così, gli azzurri sfruttano con facilità i punti di forza del loro calcio posizionale, pressando e verticalizzando efficacemente.
45′ di rotazioni e inserimenti
La strada principale battuta dal Napoli rimane quella di attivare le catene laterali, formate da mezzala, terzino ed esterno. Trovando poi il modo di sostenere la fase offensiva con gli inserimenti di McTominay e Anguissa, che si fanno vedere nella “tasca” aperta alle spalle della mediana, con Coulibaly, Pierret e Kaba talvolta spettatori non paganti. Non prima di aver destabilizzato i giallorossi, grazie alle solite rotazioni, che portano Di Lorenzo a ricevere nell’half space, con spazio per condurre, mentre Karlsson appare incapace di assorbirne lo scivolamento dentro al campo. Non propriamente un fulmine, lo svedese, difensivamente parlando.
Spinazzola e Politano sono profili assai diversi, con la palla e senza. L’ex Roma non avrà un gran talento nell’uno contro uno. Nondimeno, essendo ambidestro, è stato in grado di trovare una soluzione, mettendo i piedi sulla linea o rientrando. Senza trascurare il ruolo fondamentale che ha avuto, stringendo a centrocampo, arrivando sempre a sostegno dei compagni dal lato debole. Matteo è stato un incubo per la difesa salentina: sgusciante, tecnicamente creativo, ha alleviato gli effetti della marcatura di Gallo, che davvero non aveva idea di come prendergli le misure. Sconsolato, deve essersi chiesto come sia finito a sopportare gli isolamenti del dirimpettaio; il motivo per cui il numero 21 in maglia azzurra riuscisse a puntarlo, senza che lui potesse fare alcunché per impedirgli di produrre qualcosa di letale. D’altronde, il vantaggio del dribblatore è che avendo il pieno controllo della sfera, sostanzialmente sceglie – fintando e sterzando per rientrare – dove indirizzare chi lo fronteggia.
Il piano gara di Marco Giampaolo prevedeva di togliere spazio di manovra alla costruzione di Lobotka. Lo slovacco è libero di abbassarsi, per organizzare subito il possesso. Oppure mantiene un approccio tradizionale, aspettando che siano i centrali a scaricargli l’attrezzo. L’allenatore dei salentini sembra ossessionato dalla voglia di schermarlo, stimolando a una maggiore attenzione Coulibaly, affinché sporchi le traiettorie di passaggio in uscita. Peccato che il pivote tenga la testa alta. Infatti, non aspetta passivamente che passi la tempesta. Anzi, la gestisce, elaborando nuove strategie, funzionali a riequilibrare il palleggio. In particolare, facendo un largo uso delle aperture, per ribaltare il campo: si sfila dalla cura del maliano; quindi si associa con un compagno, per andare sul versante opposto.
Lukaku spento, ci pensa Raspadori
Il Napoli è una tra le migliori squadre in Serie A ad interpretare gli spazi che si aprono di volta in volta. Ma siccome il Lecce tiene il blocco basso, tenendo le linee strette e corte, facendo dunque grande densità sottopalla, la contrapposizione individuale predisposta da Giampaolo nega la profondità ai partenopei. L’atteggiamento leccese obbliga gli ospiti a non esplorare direttamente alla ricezione Lukaku. Questo meccanismo, però, ha dato l’input necessario per dare verticalità al possesso. Vero è che la giocata a parete riduce al minimo i rischi, poiché magnetizza l’attenzione sul centravanti, ed al contempo lo esalta. Imbattibile Big Rom quando si frappone tra il pallone ed un muscolare del calibro di Baschirotto, usando il corpo per controllarlo. E dopo sfruttare il bacino come perno, alla stregua del più dominante dei judoka.
Il belga fa da pivot, spalle alla porta, nel frattempo che le mezzali accorciano in vanti, a caccia delle “seconde palle”. Allora, le sponde convertono una situazione difficile in un’azione potenzialmente pericolosa. Perché la squadra partenopea è brava ad accompagnarlo, attivando gli esterni in ampiezza e saturando i corridoi intermedi. Una soluzione che permette di occupare il fronte, responsabilizzando ben cinque uomini in attacco. E se porti tante risorse nella trequarti altrui, quasi per inerzia si apriranno spazi. Un enigma complicato da decifrare, che ha mandato a vuoto il tentativo del Lecce di comprimere il campo al Napoli, contrastandone la fluidità posizionale con una pressione fortemente orientata sull’uomo.
In questo scenario, impossibile non ripensare alla chiarezza d’intenti con cui Raspadori si abbassava, sfilandosi in una zona meno congestionata dagli avversari. In questo modo, poteva uscire dal traffico, cucendo il gioco. Nonché, godere di maggiore libertà nel cercarsi spazi vitali, e consolidare il giropalla, diventando una preoccupazione per i difensori giallorossi. Jack cambia lo stato d’animo ai suoi prendendo di petto il primo tempo, aspettando di raccogliere dalla punizione i frutti di un tiraggiro carico di effetto.
Una ripresa di gestione e sofferenza
Non sarebbe un match decisivo senza un’inversione improvvisa. Un cambio di spartito che arriva all’inizio del secondo tempo, in virtù della fisiologica scelta del Napoli di amministare, provando ad allentare la foga dei rivali semplicemente dosando il ritmo con fredda lucidità, e respirare col possesso. Mentre il Lecce, ancora schierato col 4-2-3-1, cominciava ad accompagnare gli attacchi, alzandosi in zona palla con quattro uomini, cui aggiunge i due mediani, guadagnando inesorabilmente metri, al cospetto di una evidente passività della controparte.
Allora, il segreto per toccare i livelli di eccellenza nel nascondere la palla raggiunti dagli uomini di Conte si materializza nel lavoro di Gilmour, subentrato al dolorante Lobotka. Lo scozzese si è esibito in un clinic nel dosare l’intensità: s’è fatto dare il pallone con personalità nei momenti di confusione, erodendo secondi preziosi dal cronometro. Poi, nei minuti conclusivi, quando il lancio lungo, quello con cui si affidano le sorti alla preghiera, sperando in una spizzicata che piova letteralmente dal cielo, poteva capitare sui piedi di chiunque, ci ha pensato Rrahmani. Giampaolo, disperato, ha mandato Baschirotto a fare il centravanti, come si faceva all’oratorio, qualcosa tipo: “mettiti davanti alla porta e aspetta là”. Ed il kosovaro ci ha fatto a sportellate con coraggio, facendogli trovare apparecchiato ogni rimbalzo offensivo.
In definitiva, la squadra partenopea esce risollevata da questa trasferta. A dimostrazione che, pur se stanco e acciaccato, il Napoli continua a mettere nel mirino il suo obiettivo.
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