Sara Cardin rientra sicuramente nel ristretto novero delle migliori karateka di sempre. Perché ha vinto tanto in Italia, nonché sul piano internazionale. Una evoluzione che, soprattutto in virtù della capacità di reinventarsi in base allo scorrere del tempo, e agli infortuni, l’ha trasformata in un esempio, non solamente per chi fa sport. Oggi la sua vita è scandita dall’impegno con il Centro Sportivo dell’Esercito. Ma se guardiamo semplicemente alla bacheca possiamo tessere le fila di una carriera che ci racconta Mondiali da assoluta protagonista (argento nel 2010 a Belgrado e oro nel 2014) e ben tre ori Europei (2010, 2014 e 2016) nella categoria di peso fino ai 55 kg. Oltre a un numero imprecisato di altre medaglie e trofei, tra cui 3 argenti e 1 bronzo europei, nonché una ventina di titoli Italiani.
“Innegabile che per raggiungere certi livelli devi avere talento. Il mio non era certo l’altezza, visto che generalmente ero la più bassa della mia categoria. Dal punto di vista tecnico non difettavo in velocità e coordinazione. Più in generale, per indole sono una persona testarda, per cui ho sempre preferito fare le cose che magari mi riuscivano meno bene. Una voglia di rimettersi in gioco e crescere continuamente. Diciamo che in tal senso, determinazione e spirito di sacrificio mi accompagnano da quando ero una ragazzina, che sognava di arrivare ad essere la migliore…”.
Certo, massimizzare il talento è la prima opzione di un’atleta; quindi il titolo conquistato a Brema nel 2014, battendo il finale la francese Emilye Thouy, potrebbe rappresentare idealmente un traguardo che giustifichi l’intero percorso agonistico.

“Un’altalena di emozioni: subito in vantaggio, con la francese che recupera. Da lì, fu un salire e scendere nel punteggio. Qui viene fuori ancora una volta l’indole combattiva, la determinazione. Quella capacità di reinventarsi e cambiare tatticamente l’inerzia di certi match. C’entra anche la mia gioventù, quella energia positiva che sprizzavo quando andavo in giro con mio nonno ed il suo pastore tedesco. Attraversare il fiume Piave, giocare nei campi o inseguire gli animali in libertà. Tutte componenti che la natura mi ha offerto, incuriosendomi di continuo…”.
A caratterizzare in maniera significativa il suo cammino sono arrivati alcuni bivi che l’hanno resa fonte di ispirazione, presa a modello come donna e militare.
“Devo confessare che se non avessi vissuto prima la delusione dell’argento, quattro anni prima, forse sarebbe andata diversamente. A Belgrado, in finale, contro la Kobayashi fu un incontro difficilissimo. Con mille emozioni che mi stimolavano tutte assieme. In primis, la possibilità di realizzare davvero il mio sogno di bambina, quello di diventare campionessa del mondo. Un sogno grande, che non determinò una reale paura di vincere. Ma sicuramente mi fece combattere senza rischiare troppo. Una gara molto tattica, dove mentalmente non erano pochi i momenti in cui pensavo se partire con la tecnica oppure no. Alla fine, dopo il tempo regolamentare ed il minuto supplementare, fu premiata la giapponese per decisione arbitrale. A distanza di tanto tempo, resta il rammarico di non essermi messa veramente in gioco. Tant’è vero che nei sei mesi successivi ho letteralmente appeso i guantini, per dedicarmi a pratiche alternative; soprattutto molto nuoto”.
Non sempre rose e fiori
Oltre alle battaglie sul tatami, Sara è stata talmente impattante su un’intera generazione di atlete perché ha saputo mettere a nudo, senza alcun timore reverenziale, le fragilità che albergano nell’animo di una “vincente” per antonomasia. In primis, la sofferenza nell’affrontare anoressia e bulimia.

“Essere l’idolo di tante ragazzine, che ti prendono a modello significa anche trasmettere loro messaggi e sfide che vanno al di là del tatami. Esperienze personali che hanno chiaramente influenzato la mia vita agonistica. Per me, un momento critico è stato quello legato ai disturbi alimentari. Per un periodo mi forzarono a passare di categoria, dai 55 scesi ai 50 kg. Mi sentivo a disagio con quel tipo di peso. Non avevo l’intensità per sostenere 5/6 incontri di fila. Come se il fisico non rispondesse, mentre il mio kumite è sempre stato molto dispendioso: creavo tanto, per cui mi serviva essere lucida per trasformare poi l’aggressività positiva in energia…”.
Insomma, non deve essere stato facile essere nel karategi della Cardin. Il dolore per un terribile infortunio al ginocchio, che poteva costarle la carriera. Il sogno infranto della mancata partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo, e le inevitabili gioie o dolori che si provano quando si arriva nell’élite, eccellendo nella propria disciplina.
“Devo essere onesta, se non mi avessero convinta ad inseguire l’obiettivo Tokyo 2020, probabilmente avrei smesso prima. Ma per etica personale, se inizio una cosa, la porto a termine. Ho iniziato le qualificazioni nel 2018 da numero uno del ranking mondiale. Durante un allenamento si è rotto il legamento crociato della gamba sinistra. Dopo l’operazione e una riabilitazione record di quasi sei mesi, sono ritornata in gara: era una tappa della Premier League ad Istanbul, arrivo in semifinale. Insomma, stavo bene. Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 colleziono ottimi risultati in svariate tappe di Premier. Quindi, la pandemia ha fatto saltare le qualificazioni fissate a giugno. In realtà, devo riconoscere che il periodo che preceduto l’Olimpiade è stato negativo soprattutto perché si sono intrecciati con lo sport eventi personalissimi…”.

Nonostante la vita fuori dal tappeto gli presenti il conto, non si lascia prendere dallo sconforto. D’altronde nulla è scontato per una donna con lo spirito da guerriera, nel senso più nobile del termine. Perciò, insieme ad altre atlete, ha prestato il volto per l’iconica campagna pubblicitaria dell’Adidas, caratterizzata da un aforisma entrato di diritto nel linguaggio comune: “Impossible Is Nothing”.
“Cercavano testimonial che avessero una storia incredibile da raccontare, plasmata su un obiettivo inseguito con determinazione fino a raggiungerlo. L’immagine della ragazzina cresciuta in campagna, campionessa mondiale di uno sport come il karate, espressione quindi di forza e potenza, che al contempo riesce a esprimere sul tatami femminilità ed eleganza, si sposava col mio personaggio e con il loro messaggio pubblicitario”.
L’Esercito, una seconda casa
Dal 2014 Sara Cardin far parte dell’Esercito Italiano (graduato scelto), dove ricopre da gennaio di quest’anno il ruolo di Tecnico della sezione karate. Verrebbe da dire che non poteva essere altrimenti, poiché l’una e l’altro attingono la loro storia dalla forza propulsiva derivante da valori indissolubili, cementati grazie a sfide opposte a ostacoli, costantemente superati con impegno e applicazione.
“Sono riuscita a fare della passione la mia professione, altrimenti sarebbe stato complicato abbinare i ritmi serrati scanditi da gare e allenamenti. Con orgoglio porto avanti quotidianamente i valori universali dello sport ed il grande significato della bandiera italiana. Sono cresciuta con mio nonno, che nelle nostre lunghe biciclettate mi raccontava dei fatti del Piave, durante la Prima Guerra Mondiale. Quindi, il concetto di patriottismo mi è stato inculcato sin da bambina. Sentimento che vivo con coinvolgimento ancora oggi, la mattina, durante l’alzabandiera…”.

Nel 2018 è stata impegnata con l’Esercito in Libano, dove ha insegnato difesa personale a donne libanesi e di altri contingenti militari, insegnando loro non tanto a tirare calci e pugni. Quanto nel combattere contro ogni forma di violenza e discriminazione. Inoltre, durante quella missione internazionale è stata animatrice di un progetto per insegnare karate agli studenti di Naqura e Tibnin, influenzandoli positivamente con temi come la forza di volontà e la passione.
“Volevamo che passasse un messaggio fondamentale, fatto di rispetto reciproco. Eravamo in un contesto di pace, ma comunque in un’area geografica instabile, vicina al confine con Israele. La prima cosa che mi spiegarono, quando raggiunsi il contingente, fu come comportarmi se avessi sentito suonare la sirena d’allarme, e dove fosse il bunker più vicino. L’obiettivo era ricostruire il tessuto sociale, senza utilizzare lo strumento della politica oppure la religione. Bensì, attraverso i valori universali dello sport. Non potrò mai dimenticare le lezioni ai bambini, con l’intento di creare un confronto costruttivo: i maschietti chiamati a gestire la forza, e rispettare le bambine. Che a loro volta acquisivano maggiori consapevolezze nei loro mezzi fisici”.
Un Mondiale dipinto di Azzurro
Da Tecnico del Centro Sportivo Esercito, Sara ha seguito con trasporto i Mondiali WKF del Cairo. L’oro di Matteo Avanzini (+84 kg) è indubbiamente la sorpresa della manifestazione. Magari nessuno aveva visto arrivare il ciclone che poi si è abbattuto con forza devastante sulla manifestazione egiziana, dove tutti erano anagraficamente più grandi del “finanziere”, appena 21enne. L’atleta del Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle è stato in grado di accantonare la timidezza e rimpicciolire le ambizioni dell’iraniano Abazari, derubricandolo ad accontentarsi della piazza d’onore nella categoria dei Pesi Massimi. Una condotta di gara che fa davvero la differenza tra un combattente di talento e uno speciale, che brucia le tappe, in quanto dotato di qualità tecniche e prepotente fisicità.

“Matteo ha una struttura fisica dominante, oltre a essere dotato tecnicamente. Lo vedi che è elegante, mai grezzo. Mi ha sorpreso per concentrazione, freddezza e pazienza. Tutte qualità che non appartengono a quei ragazzini appena arrivati sulla scena mondiale, che generalmente invece sono a tratti poco lucidi, portati un po’ a strafare in quanto carichi di entusiasmo. Avanzini non s’è fatto prendere dalla emotività, dimostrando maturità ed equilibrio nel suo kumite…”.
Si rischia di sottovalutare l’importanza dei due quinti posti ottenuti da Michele Martina e Silvia Semeraro, che solo apparentemente sono frutto di sconfitte significative. Del resto, almeno in termini numerici, proprio per come sono maturate, potrebbero veicolare la sensazione di inadeguatezza rispetto agli avversari. Mentre chi ha avuto modo di guardare i match può testimoniare la bontà del combattimento portato avanti dagli azzurri. Ergo non va trascurata nella valutazione complessiva quanta importanza rivesta in certe situazioni la casualità. Perciò a caratterizzare entrambe le finali per il bronzo è stata soprattutto il coinvolgimento emotivo degli atleti italiani, capaci di mettercela veramente tutta per evitare un divario così ampio.
Martina ha affrontato Ivan Kvesic, karateka di grande esperienza; già campione mondiale nel 2018 a Madrid, e olimpico a Tokyo 2020. L’atleta delle Fiamme Oro, più basso di statura, ha impostato il combattimento sulla costante pressione. Ma si è dovuto arrendere sostanzialmente al maggiore allungo del croato. Nondimeno, ridurre la prestazione esclusivamente al punteggio di 8-0 non tiene conto degli enormi grattacapi generati dal dover gestire lo spazio, cercando di accorciare la distanza e lavorare sul controtempo.

Con un po’ di attenzione difensiva in più anche la Semeraro poteva ottenere un risultato diverso. Al cospetto di una brillante Iryna Zaretska, regina incontrastata dei 68 kg, con ben tre ori mondiali consecutivi (Madrid 2018, Dubai 2021, Budapest 2023), oltre che vicecampionessa olimpica, la “poliziotta” ha provato a mettere in difficoltà l’azera contrastandola sul piano del ritmo e della intensità. Dunque, il 9-1 non le rende granché giustizia.
“Ogni incontro è diverso, perché ciascun avversario imposta il suo combattimento. Nel kumite la situazione varia proprio in funzione dell’atteggiamento della controparte; inoltre, più sali di livello, maggiore è la necessità che tutti i fattori prestativi, tecnico-tattici, fisici ed emotivi, si incastrino alla perfezione. Per cui, a conti fatti, Silvia e Michele hanno provato a cercare soluzioni che costringessero l’avversario a cambiare il piano-gara, pagando dazio alla necessità di adattarsi al contesto scelto dai rivali”.
Tenere il passo di una concorrenza agguerrita
Nel caso di Alessio Ghinami e Terryana D’Onofrio, gli indizi (sotto forma rispettivamente di bronzo e oro agli Europei di Yerevan) diventano prove certe, incidendo sul risultato, grazie ad abilità nei fondamentali fuori dal comune, spremute fino all’ultima goccia. Un argento ed un bronzo mondiale che confermano la validità della scuola di kata italiana.
“Alessio ha fatto un Mondiale eccezionale; credo che in finale gli arbitri abbiano avuto un po’ timore nel mettere in discussione Nishiyama, premiandolo con un divario così ampio. Ma la grandezza di Ghinami s’è vista nella semifinale, quando ha sconfitto lo statunitense Ariel Torres, che tutti pronosticavano in finale, con un gankaku vicino alla perfezione. Su Terryana c’è poco da aggiungere, nel senso che ogni volta che parte per una manifestazione, torna con una medaglia al collo, dimostrando una costanza nei risultati impressionante…”.

In definitiva, sembra che la dimensione dell’Italia sia questa: un grandissimo movimento, voglioso di continuare a mantenere il suo status di “big” nel panorama WKF.
“Il bilancio è sicuramente positivo; abbiamo dimostrato ancora una volta di essere una delle nazionali leader, che tengono il passo di paesi dalla tradizione radicata. Francia, Spagna e Turchia fino a una decina di anni fa andavano fortissimo, tanto quanto l’Italia. Noi stiamo tenendo il passo dei cambiamenti, loro forse sono rimasti un po’ indietro. Ma comunque non dobbiamo fermare la crescita, perché se viaggiamo veloci, gli altri corrono più forte. Penso a nuovi competitors, come ad esempio Egitto, Giordania o Iran, in grado di crescere a velocità impressionante. La qualità tecnica del loro kumite ci sta dando un po’ di distanza. La vitalità delle loro performance, che prescinde dal numero di medaglie conquistate, ritengo sia un segnale preciso: il livello tecnico negli ultimi anni si è alzato notevolmente un po’ ovunque…”.
Basterà la solidità della nostra scuola per mantenere gli Azzurri competitivi a medio/lungo termine? A tal proposito, Sara ha una sua teoria.
“Bisogna avere una visione italiana chiara e netta, indirizzare in un movimento unitario il sapere comune; arrivare ad avere uno stile che caratterizzi la nostra scuola, dandole una forte identità. Non bisogna copiare cose dagli altri, anche se per loro magari producono risultati positivi. Si tratta di lavorare per trovare quel quid in più, che sia innovativo. E determini nuovamente quel gap a noi favorevole rispetto agli altri, tenendoli a debita distanza. Si cresce tutti insieme, grazie allo scambio di esperienze. I più esperti fanno crescere i giovani, che a loro volta restituiscono quella spinta emotiva fondamentale. Perché i secondi hanno la brillantezza, per cui talvolta sono instancabili. Ma i primi insegnano a vivere il tatami, educando a canalizzare nella giusta dimensione gli entusiasmi giovanili”.
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