Non esiste narrazione diversa in grado di alimentare la storia professionale di Luca Valdesi, uno tra i karateka maggiormente dominanti della sua generazione, che non tocchi al contempo le due fasi della sua carriera. La prima, quella che lo mette al centro della scena agonistica nazionale e internazionale, in qualità di sopraffino esecutore di kata: 6 Mondiali, 22 Europei (di cui 13 consecutivi), 20 titoli italiani. Ha letteralmente cannibalizzato la specialità per anni, manco fosse una sorta di brand identity. Luca ne converte l’interpretazione in qualcosa di diverso della classica esecuzione in sequenza di movimenti prestabiliti, tirando fuori dalle tecniche codificate una insospettabile sensazione di realismo. Dunque, altro che combattimento contro uno o più avversari immaginari. Tale definizione sfuma, poiché non rende affatto giustizia alla capacità di rendere veritieri gesti solo apparentemente simulati sul tatami. Dove a farla da padrone sono la cura maniacale dei particolari. A sancirne la grandeur, una sintesi perfetta tra tradizione e modernità.
“Personalmente, non ho mai fatto la distinzione tra karate sportivo e tradizionale; li ho sempre considerati come due percorsi diversi della stessa disciplina. Penso che nelle fasi evolutive della vita di un praticante possano coesistere sia l’agonismo che lo studio dell’arte marziale. Ad accomunare ogni karateka, la voglia di scoprire i propri limiti, quella feroce determinazione e quello spirito di sacrificio che ti spinge a non abbandonare il tatami anche se la fatica appare insopportabile o insostenibile”.
Passato, presente e futuro
Oggi che ha raccolto l’eredità di Pierluigi Aschieri, diventando il Direttore Tecnico Nazionale, Valdesi guarda al futuro con contorni maggiormente definiti, fissando i prossimi obiettivi del karate FIJLKAM. Del resto, è cresciuto respirando certe sensazioni. Non bisogna trascurare la vicinanza pluriennale con il “Professore”, che ha contribuito a mantenere eccellenti gli standard di Luca in materia di intensità, esaltandone il rendimento, al punto da renderlo abbondantemente iperperformante. Rafforzando la connessione con Lucio Maurino e Vincenzo Figuccio. Generando al contempo quello spirito d’appartenenza, funzionale a produrre un terzetto sublime come il team maschile di kata: un’Italia a tratti davvero famelica.
“Probabilmente l’essere tutti e tre figli d’arte, cioè avere cominciato a praticare con i nostri genitori a fare da maestro, ci ha dato qualcosa in più. Vivere con intensità il karate, quasi con cadenza quotidiana, ha permesso di acquisire un monte ore di allenamenti notevolmente superiore rispetto al praticante normale. Una esperienza formativa molto importante. Che fusa assieme ai dogmi del professore ha contribuito a filtrare le conoscenze del karate apprese da bambini. Il metodo scientifico, l’analisi biomeccanica e tutte le idee innovative con cui Aschieri efficientava i gesti tecnici hanno creato poi un valido mix in grado di arricchire le nostre sicurezze a livello agonistico…”.
Se pensiamo che anche nel Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle ha centrato per decenni il gradino più alto del podio ai Campionati Italiani, individualmente ed a squadre, con Fulvio Sole al posto di Figuccio, in forza al C.S. Carabinieri, allora il racconto fotografa alla perfezione la sintonia non soltanto tecnica creata con i compagni, grazie a una innegabile dedizione. Perché essere complementari rimane la caratteristica imprescindibili per edificare un percorso virtuoso. D’altronde, quando si parla la stessa lingua, è più facile convertire eventuali criticità in fenomeni avanguardisti.
Tantomeno va dimenticato l’imprinting familiare. A ispirarlo, inizialmente, sono stati proprio gli insegnamenti paterni. Infatti, è “figlio d’arte”: papà Andrea il suo primo Maestro, nella natia Sicilia, posto dell’anima di una vera dinastia (sull’argomento ci torneremo più avanti, n.d.a.). Una figura del genere gli ha trasmesso il giusto atteggiamento, determinando un legame viscerale, capace di lasciare una impronta indelebile sulla sua proverbiale cultura del lavoro. E sì, perché quella di Luca Valdesi resta innanzitutto una storia di Uomini, doverosamente con la maiuscola. E poi di gente in karategi. Dove la gratitudine è il sentimento che meglio le distingue.
“Uno degli insegnamenti principali di mio padre è che nessuno ti regala niente. Il lavoro è l’unica via per raggiungere l’obiettivo. Perciò, bisogna impegnarsi tanto e nel miglior modo possibile; massimizzando i tempi dell’allenamento, stimolando tutti gli aspetti della performance di gara”.
Un Italia che illumina gli occhi
A ciascuno la sua epica: da qualche tempo i risultati della Nazionale spiccano per i contorni imprevisti e forse imprevedibili prodotti nelle gerarchie del ranking mondiale WKF. L’Italia sta letteralmente convertendo a suo favore l’ordine precostituito, impattando con forza ed in maniera trasversale, a livello “senior” e giovanile. Tanto nel kata quanto nel kumite, individualmente ed a squadre, con gli uomini e le donne. Nondimeno, la natura equilibrata di Valdesi resiste alla tentazione: la soddisfazione per podi vari e medaglie assortite non va trasformata in smodate celebrazioni di gioia incontrollata. Consapevole che non c’è niente di miracolistico, bensì la naturale conseguenza di una lucida visione. Una strategia basata esclusivamente su lavoro e progettualità, senza lasciarsi intrigare da effimere e scintillanti mode passeggere.
“Conosco bene le dinamiche della Nazionale, avendola frequentata per 20 anni da atleta e poi, una volta smesso l’agonismo, altri 4 da tecnico. Bisogna fare una premessa: il percorso verso le Olimpiadi di Tokyo, tra qualificazioni e collegiali, aveva determinato una scelta precisa. Ovvero, puntare su un numero ristretto di atleti per un quadriennio. Adesso invece abbiamo deciso di aumentare la competitività all’interno del gruppo, dando per esempio fiducia anche a quattro/cinque Under21 assai meritevoli. L’idea di integrare le convocazioni permette di lavorare al meglio, non solo in termini di sparring. Non va trascurato l’effetto motivazionale. Il messaggio che mandiamo è che il posto non viene assicurato a nessuno, bensì segue criteri di meritocrazia. Il credito acquisito per i risultati maturati nel passato non dura all’infinito. Per cui non è raro vedere nei collegiali atleti professionisti, cioè organici ai gruppi sportivi militari, scambiare con le nuove leve, ritrovando stimoli magari sopiti. Trasmettendo al contempo ai neoconvocati le loro conoscenze tecniche e la loro esperienza…”.
Valdesi rimarca con orgoglio tutte le medaglie conquistate dall’Italia, ma è innegabile che il poker nel kata – 4 su 4 – infilato agli Europei di Yerevan (Armenia) ne illumini gli occhi, perché conferma una tradizione che il D.T., icona della specialità, ben conosce: argento alla squadra maschile, che non disputava una finale da otto anni; bronzo per la femminile. Nell’individuale, bronzo pure per Alessio Ghinami e l’oro di Terryana D’Onofrio.
“Non sono un nostalgico, ma devo sottolineare che il kata sta ritrovando alcuni punti fermi che mancavano da un po’ di tempo: studio del dettaglio, cura delle posture; nonché espressività tipica del combattimento reale. Mi piace immaginare che stiamo ritornando ad essere il punto di riferimento della specialità, invece di seguire mode passeggere. Vero è che il modello prestativo spesso lo fa chi vince. Ma copiare gli altri non è quello che ricerchiamo in federazione. Questo trend lo lasciamo volentieri ad altri. Confesso che non è per niente facile destrutturare e poi ricostruire, perché atleti magari vincenti non accettano volentieri di cambiare la loro routine di lavoro. Ma anche piccoli dettagli da modificare contengono un mucchio di particolari tecnico-tattici, oltre agli aspetti condizionali e coordinativi…”.
La maglia azzurra è una emozione che non si può sopprimere, ed al contempo un dono. Lo sanno i membri delle competizioni a squadre. Avere un compagno che “tira” dopo di te rappresenta mentalmente una sorta di valvola di sicurezza a eventuali svantaggi accumulati nel punteggio. Ma per affiatarsi devono creare un’alchimia particolare. Perciò la “doppietta” armena nel kumite, Oro per gli uomini (seconda volta consecutiva in cima al podio europeo) e Bronzo per le donne ripaga sacrifici e rinunce.
“Fondamentale stare bene all’interno del gruppo. Non avere tensioni, rivalità o contrasti, consentono di creare un ambiente di lavoro sereno. Chi sale sul tatami sa che i compagni possono vincere o perdere; del resto abbiamo elementi fortissimi in tutti i pesi. Poi il risultato finale viene determinato da un mucchio di fattori contingenti. Ma rispetto e consapevolezza, per sé stessi e per gli avversari, producono sicurezze e maggiore determinazione. Nessuno vuole perdere; anzi forte è la voglia di dare un contributo attivo alla squadra…”.
I team non hanno formule segrete per funzionare, si nutrono sempre con sudore e lavoro quotidiano, necessari affinché si possano poi coniugare personalità anche assai diverse tra loro. Non a caso, nell’ultimo biennio sono riusciti a mantenere un livello altissimo, migliorando la mezza delusione patita a Pamplona, nella Karate World Cup 2024, il primo torneo mondiale WKF dedicato solamente alle squadre. Dove l’Italia porta tutte e quattro i team, sia nel kata che nel kumite, alla “finalina” per il bronzo. Non riuscendo però a vincerne nessuna. E piazzandosi in quarta posizione. Eppure sono proprio le “medaglie di legno” a testimoniare la competitività di una federazione: sfiorare la vittoria in un contesto dove i criteri selettivi sono ormai diventati altissimi significa che la dedizione e la cultura del lavoro non si improvvisano mai. Peccato che talvolta non sfocino in una medaglia.
“Sono contentissimo, non scambierei nessuno dei quarti posti con una sola medaglia. Innanzitutto, siamo stata l’unica nazionale, assieme al Giappone, a raggiungere le quattro finali. Segno che l’intero movimento sta lavorando complessivamente bene. Poi, come dicevo poc’anzi, esiste un fattore di casualità che determina il risultato finale; il bioritmo – positivo o negativo – del giorno di gara. Ma è innegabile che il karate italiano sia al top a livello mondiale. Anche perché il regolamento sull’assegnazione del bronzo è cambiato proprio in concomitanza con la World Cup. Solo sei mesi prima chi veniva sconfitto in semifinale andava sul podio invece di dover disputare un ulteriore turno per l’assegnazione deò terzo posto. Inoltre, non va trascurato che con questo risultato abbiamo già conquistato la qualificazione per il prossimo mondiale”.
Symposium, il movimento si riunisce
In Federazione credono nella raffinata semplicità della programmazione: l’unico elemento in grado di cementare basi solide. Forte l’idea di fornire le linee guida alle varie commissioni, nell’ottica di garantire l’omogeneità del messaggio tecnico-tattico veicolato a tutti i praticanti, Ovviamente, con le dovute differenziazioni tra le varie fasce d’età. Senza trascurare gli amatori. Perché nessuno è innamorato di sé stesso, ma del sogno liberatorio di coltivare il talento. E la grandezza rimane quella che talvolta i sogni si avverano, profumando di lavoro e applicazione. In questo scenario, per esempio, si inserisce il recente “Symposium”; una settimana di intensi allenamenti e seminari che ha movimentato l’intero karate italiano in direzione di Lignano Sabbiadoro.
“Uno degli scopi principali del Symposium è preparare i giovani alle gare, nonché alla transizione tra una categoria e l’altra, fino al passaggio finale, quello nella classe senior. Sappiamo che specialmente a livello internazionale talvolta le certezze vengono minate nello scontro con avversari che hanno un’esperienza diversa di combattimento. La nostra federazione recepisce appieno le norme della WKF in materia di tutela dei giovani agonisti nel kumite, per cui non sono ammessi combattimenti sotto i 14 anni. Però ci sono federazioni che organizzano questo tipo di gare. Per cui a livello internazionale ci si imbatte in Under14 che tirano come un cadetto o uno juniores. Non a caso a Lignano si è parlato anche della categoria sperimentale degli Under12…”.
A proposito di vivaio. E’ indubbio che nel percorso di crescita le nuove generazioni attraversino fasi complicate. Specialmente nella transizione dal momento ludico a quello agonistico, non è raro che si smarriscano un mucchio di certezze, arrivando addirittura a minare la voglia di continuare la pratica. Così da alimentare il fenomeno dell’abbandono precoce.
“Oggi è un po’ più complicato rispetto agli anni ‘80/90. C’è stata una contrazione negli arruolamenti. Ecco che i talenti a livello giovanile fanno poi fatica a tenere certi ritmi, specialmente nel passaggio ai seniores, dovendo far coesistere la scuola o addirittura il lavoro, con gli allenamenti. Al punto da abbassare i loro livelli prestativi…”.
In tal senso va letta pure l’ennesima novità introdotta dalla Direzione Nazionale. Oltre allo psicologo presente nei raduni delle varie rappresentative, vengono predisposti dei colloqui personalizzati che i giovani atleti hanno con ex grandi Top Player del tatami. Qualcosa a metà tra il tutoraggio e l’immedesimarsi con delle icone del recente passato.
“In passato si accoppiavano i coach agli atleti durante la fase finale del ritiro. Abbiamo notato però che così diventava poi complicato intervenire sul campo di gara concretamente con appropriate indicazioni. Da qui, la creazione di contesti in cui si stabilisce un rapporto uno a uno oppure piccoli gruppi cui affidare gli agonisti ai loro tecnici permette di trasmettere la conoscenza di chi ha vissuto sulla propria pelle le medesime dinamiche, creando un proficuo feedback tra allenatore e atleta”.
Lavorare per un sogno
Alle Olimpiadi di Tokyo accadeva qualcosa di sorprendente, con Luigi Busà che vince un Oro leggendario. E Viviana Bottaro che tentava l’inosabile, ovvero spodestare due icone del kata femminile (la spagnola Sandra Sánchez e la giapponese Kiyou Shimizu), accomodandosi sul gradino più basso del podio, con un meritatissimo Bronzo al collo. Poi l’oblio, che ha cancellato di colpo l’euforia ed il karate dai Cinque Cerchi. Nel frattempo, Davide Benetello, teorico della rivoluzione silenziosa, in qualità di membro del Comitato Esecutivo della WKF e presidente della Commissione Atleti, ha continuato a lavorare sottotraccia per firmare una impresa. Non si è mai arreso, tant’è vero che nei giorni scorsi ha incontrato il Comitato Organizzatore dei Giochi di Brisbane 2032. Con animo progressista, Benetello continua nella sottile opera di persuasione: affermare il karate come modello virtuoso di sport universale. Con la prospettiva di convincere senza avere tuttavia l’ardire di pretendere. Sperando che nessuno si metta di traverso, soffocando un tenue ottimismo, stavolta ammantato da molte sfumature positive.
“Diciamo che la speranza non l’abbiamo mai abbandonata. Purtroppo, per Parigi e Loe Angeles, sono intervenute dinamiche che prescindono dalla disciplina sul piano squisitamente tecnico; motivazioni di carattere politico ed economico. Al momento, siamo in una fase embrionale, per cui sarebbe poco realistico anche fare delle previsioni. Bisogna attendere gli sviluppi, senza essere ottimisti o pessimisti. Lavorare facendo il meglio possibile, in attesa che verso la metà del 2026 ufficializzino la lista degli sport da aggiungere al programma olimpico”.
Influenza positiva
Valdesi ha già dimostrato di poter esercitare una influenza positiva. In effetti, si parla tanto dei figli Andrea jr. e Francesco.
Uno gioca a calcio da professionista. Cresciuto nella Juventus, ha fatto l’intera trafila nel settore giovanile, sbarcando poi in Primavera. Quindi, l’esordito in maglia bianconera, aggregato alla Next Generation (la Juve U23). Da lì, la cessione a gennaio ‘24 in prestito al Giugliano, in Serie C. Attualmente in forza al Novara, dove se lo coccolano, certi di non rimanere delusi dalla sua definitiva consacrazione. L’altro, invece, prosegue la tradizione di famiglia, percorrendo l’impervia via nel kata a livello agonistico. Pare si stia abituando a calarsi in situazioni che avrebbero scoraggiato qualcuno meno determinato. Insomma, s’è preso davvero una bella responsabilità. D’altronde, buon sangue non mente.
“Francesco ha una struttura fisica che gli ha portato qualche limitazione articolare. E solo chi fa kata può capire quanto sia importante per esempio la mobilità della caviglia in chiave agonistica. Con il lavoro quotidiano ha fatto progressi importanti, grazie a cultura del lavoro e tempo produttivo. Una qualità che l’accomuna ad Andrea. D’altronde, è uno che fissa un obiettivo e cerca di raggiungerlo con applicazione e determinazione.
Anche Andrea viene dal karate, un passaggio fatto pure dall’ultimo dei miei figli, Davide, che ne ha seguito le orme, a testimonianza che questa disciplina fornisce adeguate basi per qualsiasi altro sport. Quando gli ha associato il calcio, in tanti dicevano che era bravino. E’ stata una sua scelta, senza forzature. Facendo grossi sacrifici per allenarsi: inizialmente era tesserato con una società di Reggio, per cui mancava da casa tutto il giorno, studiando e mangiando nel percorso in auto e poi sul traghetto. Quindi una stagione al Messina. Lì l’ha notato l’Atalanta; visionandolo per un po’ prima di portarselo ad un torneo internazionale. Fece gol in finale proprio contro la Juventus. Il resto è storia!”.
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