Se c’è una cosa che rimane impressa quando ci si confronta con Francesco “Ciccio” Troise è la chiarezza di intenti che si percepisce in ogni singola parola su cosa serva per (provare a) percorrere la via del professionismo. Non esistono scorciatoie che garantiscano percorsi preferenziali: la qualità è una priorità. Se non hai fondamentali limpidi e cristallini diventa poi complicato.

Se hai la possibilità di forgiare le tue basi calcistiche con tali maestri fai un investimento sul tuo futuro: Abbondanza, Sormani, Massa, Scarpitti. Grazie a loro non solo ho imparato a lavorare sui punti deboli, a colmare difetti e lacune. Mi hanno stimolato a predispormi mentalmente e tecnicamente a risolvere situazioni che cambiavano velocemente nell’arco della stessa partita. Come se ci fossero continui micromomenti, da interpretare per far fluire il gioco. La chiave per decodificarli era la tecnica e le geometrie. Far transitare rapidamente il pallone nei piedi di chi ha maggiore qualità, per creare poi situazioni pericolose. Tutto accompagnato magari da condizioni fisiche già sviluppate rispetto ai pari età”.

Lui lo sa bene, poiché si è formato in quella che negli anni ’80 era una vera miniera nel produrre talenti: il vivaio del Napoli. Lontano dai riflettori della squadra de El Diez c’era la quotidianità di un progetto in grado di coprire tutte le categorie, facendo da ponte dalla Primavera alle fasce d’età sottostanti, giù fino agli Esordienti. Inequivocabile che per allenatori tipo Riccardo De Lella o Nicola D’Alessio ogni sforzo era indirizzato a plasmare giovani calciatori, facendo acquisire loro conoscenze tali da renderli sempre più completi sul lungo termine.

Oggi il rapporto piede-palla – inteso come capacità di utilizzare entrambi i piedi, non solo quello dominante – viene trascurato. Si preferisce privilegiare la fisicità, l’impatto immediato, specialmente nella contrapposizione con l’avversario. Ma talvolta l’età cronologica non corrisponde a quella biologica. Spesso lo sviluppo morfologico varia da soggetto a soggetto. Allora, bisogna aspettare il momento giusto, coltivando con pazienza e senza affrettare i tempi il materiale a disposizione. Perché si intravedono delle qualità, ma la piena maturazione fisica è ancora lenta, tarda a compirsi. Importante, in quella fase, riconoscere in tutte le sue molteplici espressioni il talento. Quel che conta davvero, ovviamente, è non mortificarlo. Prendiamo per esempio Busquets del Barcellona, un centrocampista che all’apparenza gioca a due velocità in meno rispetto alla intensità del calcio attuale. Intuito e letture gli hanno sempre permesso di dominare, anche se sembrava muoversi sotto ritmo. E che dire di Fabio Cannavaro: magari lontano dai canoni del corazziere, per fisicità. Eppure nessuno può metterne in dubbio quanto sia stato un difensore dominante, in virtù di stiffness, caparbietà in marcatura, applicazione e feroce determinazione. Immaginiamo se qualcuno, in età giovanile, li avesse messi da parte”.

Il patrimonio di quei “maestri” era allevarli, nella speranza che fossero capaci di tenere il campo una volta arrivati tra i “grandi”, al di fuori dell’ambiente protetto assicurato dal settore giovanile. Obiettivo raggiunto; qualcuno ha giocato in Serie A. Altri, invece, macinato chilometri tra B e C, con fisiologici alti e bassi. Senza dimenticare chi ha trovato una sua dimensione, galleggiando stabilmente in D ed Eccellenza; per intenderci, campionati assai competitivi che – almeno in Campania -, erano sicuramente paragonabili ad altre realtà. Con “rimborsi” e atmosfere tipiche del professionismo. Per dire, nella rosa del Napoli che vinse il primo scudetto, nel 1986/87, ben 8 avevano fatto l’intera trafila giovanile, allontanandosi dal Centro Paradiso soltanto per trasferirsi temporaneamente altrove, maturando importanti esperienze in prestito. Protagonisti, a vario titolo, di quella storica cavalcata, Ciro Ferrara, Caffarelli, Volpecina, Muro e Di Fusco. Un radicato senso di appartenenza all’azzurro, certificato anche dai comprimari, che ebbero comunque un peso decisivo nello spogliatoio, tipo Carannante, Celestini, e Puzone. Fonte d’orgoglio per il club partenopeo, al pari per esempio di Massimiliano Favo o Ugo Napolitano, in quegli anni veri top player al piano di sotto.

Necessario farsi le ossa

Molti di quella generazione, se non addirittura tutti, erano figli del cd. “calcio da strada”. Ergo, padroneggiavano il pallone nello stretto. Cosa che si ottiene solamente incentivando scelte libere e creative, scevre cioè dalla rigidità dei tatticismi esasperati: una dimensione ardua da riprodurre in contesti contemporanei, dove ormai conta (quasi) esclusivamente il possesso e la costruzione bassa.

Se vogliamo fare rifermento alla capacità di adattarsi alle varie situazioni, allora sì. Personalmente, preferisco dividere il calcio in due momenti. Quello che viene risaltato dalla industria dello spettacolo calcistico, che si sofferma sulla tattica. Magari sulle giocate individuali. Poi c’è l’essenza del gioco: piccoli frammenti in cui si scinde ogni gara, duelli che mutano continuamente lo scenario. Insomma, la strada rapportata in un contesto diverso. Ecco, sono convinto che quando porti l’entusiasmo tipico di quella situazione nel calcio dei grandi, hai vinto. Nel senso che poi realizzi lo spirito dello scugnizzo, scapestrato e tecnicamente orientato a inventarsi la giocata per risolvere un problema”.

Non c’è dubbio che per Ciccio il passaggio dalla Primavera del Napoli alla C2, (Potenza, Casale e Olbia), coincida con uno snodo cruciale: la trasformazione da ragazzino a uomo. Quella fase della vita calcistica in cui inizi a confrontarti con gente maggiormente scafata, che ha giocato pure a buoni livelli.

C’è una bella differenza rispetto al settore giovanile. Il momento in cui la passione deve trasformarsi in lavoro. Aumenta notevolmente il grado di competitività. Ti devi abituare in fretta a vivere fuori di casa; a stare in campo con gente forte, e smaliziata. Che a fine mese deve monetizzare, perché ha una famiglia da sostenere. Diventa innanzitutto una questione di adattamento. A un certo tipo di ritmi, al livello dei compagni. Gente che magari ha giocato in categoria superiore oppure ha anni di esperienza in C. Io arrivavo dal campionato Primavera, dove mi confrontavo con i pari età. Il salto non era mica facile. Cambiavano gli obiettivi: nel Napoli giocavo per le prime posizioni, abituato a lottare per vincere. Però così si facevano le ossa, perché la voglia di crescere sul piano personale doveva sposarsi con le esigenze principali della società. E l’importanza del risultato rispetto ai tempi del vivaio cominciava a diventare prioritaria”.

Ci sono un paio di sliding doors sulla strada di Troise, che gli cambiano il destino. La prima è connessa a un potenziale declassamento, che in modo imprevedibile, forse gli allunga la carriera. Dopo tanto peregrinare, sceglie di tornare a casa: Scafatese, Virtus Volla e Internapoli sono le tappe dove offre una interpretazione del gioco improntata alle letture a tratti visionarie che propone chi ha raggiunto la piena maturità tecnico-tattica. Propedeutica allo step successivo. Ovvero, passare con naturalezza dal campo alla panchina. Anche qui c’è una “porta girevole”. Allena in Eccellenza e Serie D per obiettivi concreti: ottenere la promozione attraverso la creazione di una precisa identità, propositiva e mai speculativa.

Ho sempre avuto nella testa un’idea: o vinco, quindi salgo di categoria per merito. Altrimenti devo provare a impressionare diversamente. Come? Studiando, aggiornandomi continuamente. Imparando cose nuove. E dopo applicandole in campo. Perché essere efficaci è una cosa; tutt’altra giocar bene. Aggiungo però che la mia grandissima voglia di arrivare ha incontrato la giusta opportunità. La fortuna di un incontro, che mi ha fatto capire che è sempre un uomo che contribuisce ad aiutare un altro nel realizzare il suo percorso”.

Essere al livello dei migliori

Complicato, in effetti, trovare un punto di equilibrio tra la voglia di applicare con maniacalità i suoi princìpi e la criticità di categorie in cui la programmazione è una chimera: ogni anno si ricomincia da zero. Ecco lo switch che cambia le prospettive.  Siamo in piena estate 2013 e Giuseppe Sannino – conosciuto al tempo che allenava la Vogherese, in D – assunto alla guida del Chievo Verona, lo introduce nel calcio che conta, affidandogli il ruolo di vice nell’avventura sulla panchina dei clivensi in Serie A. Così, quel viaggio decisamente tortuoso porta finalmente ai finalmente massimi livelli.

Sannino è una persona di grande bontà. Mi disse semplicemente che se non avessi avuto il giusto atteggiamento, cioè se non fossi stato serio, sarei durato non più di tre mesi. Mi ha spinto ancor di più a credere in quello che stavo facendo; continuare a studiare per strutturare le mie competenze. Se convinci un uomo del genere, prima o dopo le porte si aprono“.

Un dettaglio non da poco, che serve a sottolineare il suo atteggiamento, nei confronti del lavoro e nei rapporti personali. Forse perché in Eccellenza era obbligato a dover trovare la migliore soluzione possibile con quel che aveva. L’incontro con Sannino fa da spartiacque, ma è Fabio Cannavaro a spalancargli le porte del calcio internazionale: da tempo nello staff del Pallone d’Oro 2006, Ciccio lo segue ovunque. E pur non essendo affatto un personaggio cool, lo affianca in ogni avventura professionale in giro per il mondo.

Il bello di affiancare un allenatore e una persona come lui è che, nonostante la carriera da calciatore ai massimi livelli, si mette continuamente in discussione. Ogni giorno che lavoro con lui cerco quindi di conquistarmi la sua stima, attraverso l’applicazione quotidiana sul campo. Non è semplice il ruolo del collaboratore, devi avere svariate competenze, tali da supportare il titolare in qualsiasi situazione. Fabio trasmette passione, infonde i suoi principi a livello organizzativo; è uno stratega che legge in anticipo le situazioni tecnico-tattiche. Inoltre, ha dimostrato di sapersi adattare in qualsiasi contesto. In Cina ha vinto tanto. A Udine è riuscito a conquistare l’obiettivo chiesto dalla società, ovvero la salvezza, anche con prestazioni superiori alla media, tipo il pareggio contro il Napoli oppure la vittoria con il Lecce. Sorrido quando sento qualcuno palesare un certo pregiudizio nei suoi confronti. Tipo quelli che lo criticarono per la scelta di Benevento. Peccato che dopo la sua gestione, abbiano cambiato altri due allenatori. Invece dovrebbe essere da monito per tutti gli allenatori la grande gavetta che sta facendo: sempre pronto a fare una valigia e partire”.

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