Se c’è una lezione che possiamo imparare dalla vittoria del Napoli sull’Atalanta è che evolversi, ovvero aggiungere cose nuove al proprio bagaglio tattico, fa parte del percorso di crescita di ogni gruppo con ambizioni di grandezza. Non si domina sapendo fare solamente una cosa; ma si parte da quella per aggiungere altre skill. Soprattutto, poiché stiamo parlando comunque di una squadra, il miglioramento non è mai lineare. E spesso dipende dal momento contingente. Perciò il rendimento iperperformante di Neres e Lang, veri mattatori del match con la Dea, va letto come una parabola da contestualizzare. A inizio stagione, in un modo o nell’altro, entrambi apparivano peggiori di quanto non fossero in realtà. La loro era una situazione preoccupante, tale da pregiudicarne l’utilizzo nelle rotazioni di Conte. La conseguenza pratica di una evidente regressione? Incapaci di mettere in vetrina un innegabile talento, erano tristemente scivolati sul fondo della panchina. Addirittura, il tecnico preferiva schierare sugli esterni profili adattati, piuttosto che concedergli fiducia.
A questo punto della storia, il destino di Neres e Lang (senza trascurare anche quello di Mazzocchi, subentrato con la solita cattiveria agonistica, cui ha abbinato un paio di giocate veramente brillanti) si intreccia inesorabilmente con i princìpi dell’allenatore. Uno che crede fortemente nelle sue idee; quindi, le persegue con tenacia fino in fondo. Senza tuttavia accontentarsi di svolgere il compitino. Per Conte non basta semplicemente fare il minimo indispensabile; proprio questa consapevolezza gli ha permesso di ricostruire un rapporto con chi si sentiva messo ai margini del progetto. La speranza era una soltanto: messi davanti alla necessità di alzare il livello qualitativo delle loro giocate, il brasiliano e l’olandese avrebbero switchato. In effetti, così è stato, palesando sul campo la crescita pretesa dal tecnico salentino.
Solidità coi terzini all’ala

Insomma, sono passati circa tre mesi dall’inizio del campionato ma lo scarto tra quel Napoli, pensato essenzialmente per Lukaku e De Bruyne, e quello ammirato nell’ultima uscita al cospetto degli orobici, appare davvero notevole. Sarà un caso, eppure il ritorno all’antico, con la difesa a tre che tanto piace a Conte, ha determinato un miglioramento nel gioco. Come se gli azzurri, dopo tanti infortuni che ne hanno cambiato la struttura, fossero ancora a caccia di una piena identità tattica. Che finalmente sono riusciti a trovare contro uomini di Palladino.
Non è certamente frutto del caso se i Campioni d’Italia hanno letteralmente annichilito i nerazzurri con un primo tempo a tratti sontuoso. Certificando di avere in organico risorse adatte a sviluppare un calcio dall’indole offensiva potenzialmente devastante, invece di limitarsi al mero controllo degli spazi, da chiudere o concedere all’avversario.
Una prova di forza per cui adesso che siamo arrivati alla fine di novembre è lecito chiedersi: fin dove possono spingersi Conte ed i suoi ragazzi con questo nuovo sistema? La certezza attuale è che il Napoli non può prescindere dalla chiara identità garantita dal 3-4-3, cui associa verticalità e transizioni. Mettere ai lati della mediana due terzini, apparentemente un azzardo, ha prodotto i suoi frutti. Poiché Di Lorenzo e Gutierrez, interpretando il ruolo alla stregua di laterali a tutta fascia, pur avendo gamba e indole proattiva, non sbilanciavano il baricentro, assicurando equilibri nelle due fasi con adeguate letture; affinché il reparto difensivo non andasse in sofferenza quando si alzavano a sostengo del possesso.
Hojlund indigesto alla Dea

Potrà sembrare paradossale, ma rinunciando in partenza a usare Neres e Lang come esterni “puri”, cioè non solo coi piedi sulla linea, alla ricerca dell’isolamento in situazione di uno vs uno, ma liberi di sgasare, ha migliorato sensibilmente la fase offensiva. In quanto i due sono stati bravi a trovare le spaziature, specialmente nella trequarti altrui. Consentendo dunque ai compagni di sviluppare un gioco associativo mai banale attraverso meccanismi funzionali a esaltare in primis Lobotka e McTominay. Per cui i centrocampisti lavoravano senza andare in confusione o farsi prendere dalla smania di forzare un passaggio, evitavano di finire in apnea col pallone tra i piedi al cospetto della pressione esercitata dagli orobici.
Allora, più in generale, a rendere il copione indigesto all’Atalanta hanno provveduto un maniacale rispetto delle distanze. Mediana stretta e corta, con lo slovacco e lo scozzese molto vicini tra loro, e l’idea di sviluppare un calcio rodato. Lobotka consolida la prima costruzione, scandendo il ritmo del giropalla con grande applicazione. La sua reattività si dimostra assai utile quando le cose si mettono male, specialmente se c’è da mettere una pezza sulle crepe che si aprono nel mezzo. McTominay ribalta il fronte, facendo valere la sua qualità e trovando gli spazi con pregevoli inserimenti. Entrambi poi stimolavano alle ricezioni, riuscendo a coinvolgere attivamente gli offensive player tra le linee. In uno scenario tattico nient’affatto rigido nei movimenti d’attacco. Dove Hojlund gestiva magistralmente il duello fisico, giostrando spalle alla porta, da pivot. E Neres o Lang gli tagliavano dietro, aggredendo la profondità.
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