Francesco Cotugno ha vissuto tante vite calcistiche. Da portiere, ha esordito giovanissimo con la Grumese, in C2 (1983/84) regalando poi i suoi anni migliori, fatti di parate “ordinarie” e interventi più appariscenti, tra Puteolana, Benevento e Brindisi, sempre in Terza Serie, risultando spesso decisivo. Prima di appendere i guanti al fatidico chiodo al Castel di Sangro. E passare dall’altra parte della barricata. Dedicandosi al lavoro specialistico di preparatore. Quello di allenare rappresenta il classico percorso dove vanno a braccetto esperienza e sapienza nel trasmettere agli altri le proprie conoscenze. A vedere la crescita esponenziale di certi estremi difensori, appare francamente evidente quanto un buon “maestro” contribuisca in qualche modo a cambiare il rendimento degli “allievi”, trasformando potenziali debolezze in punti di forza.
“Ho iniziato a parare da ragazzino alla Virtus Baia. Era un altro calcio, fatto di campi in terra battuta. Bisognava avere una certa dose di coraggio a tuffarsi, perché escoriazioni e borsiti non mancavano mai. Anche trovare i guanti non era mica semplice; spesso li dovevamo riparare in maniera artigianale. Alla Grumese mi fece esordire in C2 Mario Zurlini, nelle ultime giornate di campionato. Da lì in avanti, si è dipanata la mia carriera, con l’ultima panchina al Franchi, contro la Fiorentina, rinata dopo il fallimento. Non voglio sembrare nostalgico, ma senza retorica, confesso che era complicatissimo farsi strada, arrivare a certi livelli. Dovevi faticare molto, dimostrare ai senatori di avere voglia di soffrire. Insomma, era un contesto che ti forgiava. Permettendoti di diventare uomo presto, e imparare a cavartela da solo”.
D’altronde, il calcio è cambiato, rivoluzionando di conseguenza sistemi di allenamento che apparivano abbondantemente collaudati; esercitazioni quotidiane, riscaldamento pre-gara. Tutto è stato rivisto. Non era semplice uscire dalla comfort zone e adattarsi alla nuova routine. Oggi inevitabilmente gestire i portieri è un mestiere dagli equilibri delicati, tra rotazioni sistematiche legate ai molteplici impegni in calendario, nonché dalle modifiche al regolamento, che influenzano non poco lo sviluppo di un progetto tecnico.
“Ho avuto la fortuna di attraversare tutte le fasi che hanno caratterizzato la profonda trasformazione del ruolo: prima si limitava a parare, adesso contribuisce fattivamente allo sviluppo della manovra, partecipando coi piedi. Considero l’evoluzione qualcosa che arricchisce, perciò i cambiamenti determinano un aumento del proprio bagaglio di conoscenze. La mia era la generazione delle precise gerarchie tra i pali. C’era il primo portiere ed il dodicesimo. Giocare con continuità permetteva di creare simbiosi coi compagni, migliorava l’affiatamento col reparto difensivo. E cosa da non disprezzare, ti faceva acquisire tranquillità. Oggi specialmente nelle squadre top, avere non due, bensì addirittura tre portieri affidabili dà garanzie, perché l’infortunio è sempre dietro l’angolo, pure in allenamento, visto l’intensità ed i ritmi del gioco”.
Dalla Cina con furore
Cotugno sembra perfettamente a suo agio nel nuovo ruolo. Tanto che, dopo stagioni da protagonista in Lega Pro, collaborando con gli staff di svariate società (Foggia, Marcianise, Cavese, Nocerina e Ischia), il grande salto con Fabio Cannavaro. L’ex Pallone d’Oro 2006 gli offre l’opportunità per costruirsi una dimensione decisamente più ambiziosa. Ben oltre i confini dell’italico pallone. Non poteva essere un passaggio scontato, quello dai campi talvolta polverosi della C, ai margini del palcoscenico internazionale, al campionato cinese. Piuttosto che un rimpianto, allora, diventa motivo d’orgoglio aver potuto trasmettere le proprie idee e metodologia a Tianjin Quanjian e Guangzhou Evergrande.
Cominciamo dal ruolo di preparatore: rapportarsi con un “numero uno” è indubbiamente complicato. Stringere un rapporto emotivo, prim’ancora che puntare su un modello prestativo ideale, diventa meno ingombrante?
“Il preparatore è sì un maestro, perché cura le basi tecniche del ruolo, mentre tatticamente lavora in funzione della copertura dello specchio di porta, sviluppando i rapporti coi compagni. Ma non deve mettersi in cattedra; il dialogo deve essere funzionale a mettere i ragazzi a loro agio e consentigli di stare bene ed esprimersi al meglio. Personalmente, baso molto il rapporto provando a entrare nella testa dei miei portieri. Bisogna essere credili e sinceri. Avere fiducia reciproca: quelli che alleno in quel momento, per me sono tra i migliori del ruolo. Al contempo, se non si fidano di quello che propongo loro diventa poi complicato instaurare una buona routine di lavoro. Ovviamente, va anche personalizzato il discorso in base al contesto: se parliamo di portieri giovani o di settore giovanile, il focus attentivo è orientato a costruirlo e dopo perfezionarlo. Con quelli della prima squadra, bisogna concentrarsi maggiormente sul renderlo performante in vista della gara”.
L’Estremo Oriente è una realtà molto diversa da tutte le altre da cui sei passato.
“Dopo tanto girovagare in C mi sono rincontrato con Fabio Cannavaro, che già conoscevo da quando era un ragazzino. Chiaramente, avendo fatto due carriere leggermente diverse ci eravamo un po’ persi di vista. Lui mi spiegò il suo progetto, l’intenzione di creare uno staff che lo supportasse in questa avventura in Cina. Sono stati 7 anni intensi, una bellissima esperienza calcistica. Ma non solo. Ho avuto l’opportunità di lavorare con portieri forti, che mi hanno dato grosse soddisfazioni, sposando le loro caratteristiche e adeguandole alla mia metodologia. Spesso si dimentica il livello competitivo che stava assumendo la Lega cinese, con giocatori tipo Hulk, Oscar, Hamsik o Lavezzi. Noi avevamo in rosa gente del calibro di Paulinho, Pato e Witsel. Col Quanjian venimmo promossi in massima serie. Con l’Evergrande, vincemmo due campionati, conquistando anche l’accesso alla Champions League asiatica. Poi il Covid ha complicato non poco proseguire a vivere là”.
Che risorse hai trovato dentro di te per andare avanti in pieno Covid, lontano dagli affetti e dalla famiglia.
“Vivere lontano dalla famiglia è una delle prove più ardue che si possa affrontare. Considera che per me Baia resta il posto del cuore. In pieno Covid, giocavamo sul modello della NBA, in bolla, con settimane se non mesi interi passati chiusi in albergo. Ho trovato dei compagni di viaggio che mi hanno dato tanto, in termini di empatia e vicinanza emotiva. A questi livelli può sembrare regni l’apparenza, che nessuno ti aspetti. Invece, Fabio è stato subito chiaro. Voleva creare un gruppo solido, che lavorasse con abnegazione, sulla scorta di precisi valori: grande rispetto, umiltà, impegno. Nei momenti di vuoto emotivo, che ciascuno di noi ha vissuto, specialmente durante la pandemia, ci siamo sostenuti a vicenda. La forza è stata innegabilmente il gruppo. Oltre a Fabio, il fratello Paolo. E poi Ciccio Troise ed il prof. Ventrone. In un anno e mezzo senza rientrare in Italia ne abbiamo fatte di cene conviviali”.
Il valore di gavetta e formazione
Il valore ed il significato di essere passato dalla gavetta, prima di guadagnarsi una platea internazionale.
“L’ho sempre vista come qualcosa di necessario. Non a caso, ho ispirato larga parte del mio percorso, non solo di campo, sulla scorta del principio che non è la categoria a fare l’uomo, ma esattamente l’inverso. Magari cambiano i campionati, ma le dinamiche interne al gruppo e nello spogliatoio restano uguali. Devi fare sempre quello in cui credi, essere te stesso, mai adattarsi per convenienza. Se vuoi rispetto, devi innanzitutto essere disposto a darlo per primo. Ho incontrato alcuni campioni veri, con centinaia di presenze in A oppure Champions, che con l’umiltà di chi non si sente superiore, trattava tutti allo stesso modo, il magazziniere oppure un compagno misconosciuto. allora, ti rendi conto del perché sono arrivati a certi livelli, rimanendoci a lungo”.
A proposito di percorsi tortuosi: i motivi per cui l’esperienza in B sulla panchina del Benevento, vissuta da dentro, non ha prodotto i frutti sperati.
“Sono particolarmente legato all’ambiente, perché ci ho giocato tre anni. I risultati saranno stati anche non particolarmente positivi, ma mantengo comunque un bellissimo ricordo del periodo che abbiamo passato sulla panchina del Benevento. Chi ha fatto calcio sa bene che talvolta ci sono stagioni in cui va tutto per il verso sbagliato. Annate dove tanti calciatori non riescono a esprimersi come vorrebbero, e perciò non danno il meglio, nonostante un bagaglio tecnico-tattico importante. Detto questo, per onestà, è giusto anche ricordare che nessuno dei 4 allenatori (Caserta prima di Cannavaro; Stellone e Agostinelli dopo, n.d.a.) è riuscito a invertire il trend negativo“.
Hai raggiunto il vertice della piramide formativa col Corso UEFA Goalkeeper A, che permette poi di allenare i portieri in squadre professionistiche, anche in quelle che partecipano alle varie Coppe.
“Sono contento, nonché estremamente orgoglio, perché siamo solo 52 in tutta Italia ad avere questo patentino, ed a Napoli sono l’unico. Si fanno due sessioni annuali, a ciascun corso partecipano 12 allievi, più 4 su invito della Federazione. Al di là dei numeri, tuttavia, a gratificarmi è soprattutto la possibilità di potersi aggiornare continuamente. Il confronto, la possibilità di porsi delle domande, determina poi effettivi miglioramenti. Inoltre, ritenevo giusto chiudere il cerchio di un ciclo formativo cominciato anni fa con il classico UEFA B. Una soddisfazione personale ed al contempo un elemento che contribuisce ad arricchire il curriculum. Nella mia carriera non mi ha regalato niente nessuno; mi sono sudato tutto quello che ho avuto. Per cui sono doppiamente soddisfatto”.
I social e la pazzia del “numero 1”
Sei molto attivo sui social, non è raro leggere post in cui hai espresso tutta la tua vicinanza a Meret, mai amato appieno da una parte dei tifosi napoletani.
“Denigrare gli altri non è nel mio stile. Non sono mai stato uno finto. Dunque, mi piace gratificare pubblicamente chi mi apprezza: i ragazzi che ho allenato in passato e chi curo attualmente. Ci sono momenti di gioia che vivo assieme a loro, condividendo emozioni e stati d’animo. Prendiamo ad esempio Marco Giglio, da poco entrato nello staff di Conte, dopo una lunga militanza nel settore giovanile del Napoli. All’indomani dello scudetto, gli ho fatto subito i complimenti. Ha qualità umane e tecniche, per cui, mi sbilancio e spero che la società nel prossimo futuro investa su di lui, attribuendogli maggiori responsabilità. Del resto, gli azzurri hanno uno staff molto preparato. Non a caso, lo spagnolo Alejandro Rosalen ha contribuito a migliorare Meret sotto l’aspetto della gestione dello spazio, nonché dal punto di vista podalico. E sul portiere friulano, se qualcuno cerca ancora il pelo nell’uovo per criticarlo a oltranza, ricordo che parlano i numeri: due scudetti da coprotagonista non si vincono senza avere qualità. Che vanno oltre al semplice atteggiamento mentale di un ragazzo sereno, tranquillo ed equilibrato”.
Tra le qualità che ti hanno consentito di arrivare a questi livelli rientra anche la tradizionale “pazzia”, che storicamente caratterizza il ruolo.
“Pazzo è forse il gesto motorio, cioè allungarsi e mettere la faccia a distanza ravvicinata dove altri usano i piedi. Ma il portiere deve essere estremamente equilibrato. Pronto e reattivo, soprattutto di testa. C’è un altro principio che uso con i miei allievi: quello della palla sbucata. Ci sono solamente due scenari in cui la visuale è libera; il rigore e l’uno contro uno. Perciò aggiungo sempre delle difficoltà, affinché l’allenamento non si riduca a qualcosa di analitico, ma fortemente situazionale, per diminuire i tempi di risposta. Così da adattarsi in una frazione, capire il contesto e scegliere il giusto approccio alla parata”.
Allora, la ricetta per essere un buon portiere; conta più l’allenamento, sotto forma di disciplina e massima applicazione nella quotidianità. Oppure la testa, intesa come mentalità vincente, che non ti lascia mai abbassare la guardia.
“Un buon portiere non può affatto prescindere da entrambe le caratteristiche. Attualmente, deve essere considerato a tutti gli effetti un giocatore completo, che deve conoscere il gioco ed i suoi principi in entrambe le fasi, così da potersi calare adeguatamente in situazioni dinamiche, che cambiano continuamente, come ad esempio, accorciare in avanti o scappare a difesa della porta; quindi gestendo lo spazio variabile in funzione della distanza della palla. Ma deve comportarsi in maniera impeccabile anche fuori dal campo: curare il fisico, avere rispetto della propria vita privata. Altrimenti un giorno potrebbe trovarsi nella situazione di porsi una domanda scomoda: dove potevo arrivare se mi fossi comportato diversamente?”.
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